romagna arte e storia
Rivista di cultura
Piero Meldini
L'AVVENTUROSA STORIA DELLA PIADA
"Il
pane rude di Roma. Cicalata sulla Piada"
n. 45, a. XV, 1995
L'identità della piada
Le fonti storiche
Le povere «piadine»e
la fragrante piada di frumento
La ricetta della piadina
L'identità della
piada
Nel gennaio del 1920, a Forlì, nasceva la «rassegna mensile
d'illustrazione romagnola» La Piê. Lo «schietto pane, intriso sul tagliere e
cotto sulla tegghia», si apprestava così a diventare, oltre che il «pane [...]
nazionale dei Romagnoli» - giusta la definizione di Giovanni Pascoli -,
l'emblema stesso della Romagna, la sua bandiera. L'editoriale programmatico
firmato dalla Direzione (Aldo Spallicci, Antonio Beltramelli e Francesco Balilla
Pratella) lo affermava a chiare lettere: «Niente dice più "Romagna" di questo
pane nostro. [...] Questo, adunque, è un simbolo che dice devozione alla nostra
terra».
Nel 1932, dopo più di dieci anni di strenua militanza romagnolista e piadaiola,
proprio sulla Piê (ironia della sorte) apparirà una «notula filologica»
di Nino Massaroli che getterà lo scompiglio in redazione e farà sorgere qualche
dubbio sull'universalità del vessillo e sulla sua stessa natura.
Scriveva dunque il Massaroli: «La piada romagnola è fatta colla pasta lievitata
del pane e si fa a forma grande e rotonda od a forma di quadrettini e cotta in
padella col grasso di maiale [...]. Talvolta si fa al forno, o sulla graticola».
Il forlivese Spallicci, che in tema di piada aveva dettato le parole di una
palpitante «"canta" di trincea», poi musicata dal Balilla Pratella («Oh Dio
la piê! Udor da cà! / Che riva iquà / E e' sent chi ch'mâgna / Eria 'd Rumâgna.
/ Oh Dio la piê!»), allibiva e si sentiva in dovere di impartire al
Massaroli una solenne tirata d'orecchi: «Ce ne dispiace, [...] ma qui egli
dimostra di non aver un'idea ben chiara della piada». La condanna inappellabile
era la rilettura del verboso poemetto-ricetta che il Pascoli aveva dedicato al
«pane che si fa da soli».
Il Massaroli, a onor del vero, non vaneggiava: dalle sue parti, a nord di
Ravenna, si dava (e tuttora si dà) il nome di piè a focacce lievitate sia salate
che dolci, cotte al forno o fritte in padella, con o senza uova. Non era colpa
sua se la piada della Romagna alta poco aveva a che spartire con quella della
Romagna media e bassa. Responsabile del fraintendimento era semmai quella
cerchia di fervidi e per molti versi benemeriti studiosi e appassionati di
cultura romagnola, raccolti prima intorno al Plaustro e poi intorno alla
Piê, che, valutando oro zecchino gli ultimi e più correnti spiccioli del
mondo tradizionale, li proiettavano in un passato remoto mitico e dentro un
orizzonte antropologico fiabesco. Che si reputavano archeologi e filologi, ed
erano degli opinion-maker.
Il «pane rude di
Roma»
Il caso della piada è esemplare. Era stato il Pascoli a
riconoscere nella latina mensa l'antenata diretta della piada. Rinvenirla
nientemeno che nella «divina Eneide» (VII, 107-115), segno celeste - la piada! -
del sospirato approdo del pio eroe ed happy end, donde la prima Roma, e la
seconda, e la neonata terza; leggere che i Troiani «a la fatal focaccia / Che
stesa a terra lor servìa da mensa / Volsero i morsi con gioconda faccia, / E a'
larghi suoi quadrelli ognun sol pensa»: tutto questo non poteva non riempire di
sacrosanto orgoglio il Pascoli - che si affrettò a definire la piada «pane rude
di Roma» - e i suoi discepoli. Il cordone ombelicale tra Roma e la Romània era
dunque certificato anche - o soprattutto - dalla piada.
Intendiamoci: come le numerose consorelle di cereali macinati, impastati con
acqua e cotti senza lievito su lastre di pietra o di terracotta, la piada è
realmente un cibo arcaico. La si può far rimontare, a lume di naso, al
neolitico. Ma i rapporti tra la piada e le mensae romane non sono più stretti di
quelli con la «carta musica» sarda, la yufka turca, la rödha indiana, la
burgutta eritrea e la taguella dei Tuareg.
Se il «testo» di terra refrattaria si cui la piada si cuoce discende
effettivamente, di nome e di fatto, dal latino testa («coccio»), l'etimologia
della parola «piada» è invece molto più controversa. La vecchia ipotesi del
Goidanich, che ha invocato un presunto etimo *platus («piatto»), parente del
termine greco plakoûs («focaccia»), sembra definitivamente caduta. Giuseppe
Vidossi ha accostato «piada» a «fiadone», «cassoncino» abruzzese ripieno di
formaggio, mentre Angelico Prati, più autarchico, l'ha collegata al romagnolo
piè, piès («rassodarsi»), «con riferimento all'assodarsi della pasta nella
cottura». Insomma: buio pesto.
Le fonti storiche
Qualche lume in più ci viene dalle
fonti storiche, che in tema, per altro, sono singolarmente taciturne.
La prima menzione di un cibo di nome «piada» si trova - per quel che ne so -
nella Descriptio Romandiole, la ben nota statistica-censimento fatta redigere a
fini impositivi, nel 1371, dal cardinale Anglic Grimoard de Grisac, fratello di
Urbano V. Alla comunità di Modigliana (Mutiliana) è imposto un tributo alla
Camera Apostolica di grano, vino, quattordici capponi, tre galline, una libbra
di pepe e, per l'appunto, due piade.
E' francamente difficile immaginare che da una comunità di 132 focolari (621 con
il contado) si esigessero, oltre agli altri balzelli, due piadine come quelle
che confezionava, per il commosso fratello, Maria Pascoli, e quali oggigiorno si
spacciano, a tonnellate, nei cento e cento negozietti e baracchini disseminati
in tutta la Romagna: due piadine, figurarsi, che bastano sì e no per l'antipasto
di un inappetente. Si dovrà allora pensare che le «piade» trecentesche fossero
larghe focacce lievitate e forse condite con grasso di maiale, cotte nel forno:
del tipo di quelle che, a seconda dei luoghi, si chiamano tuttora piè oppure
«spianate».
Intorno al 1572 il medico e naturalista riminese (ma originario di Piobbico)
Costanzo Felici, in un trattato in forma di lettera che è un catalogo ragionato
di tutte le piante commestibili, spontanee e coltivate, parla incidentalmente
delle «placente e cresce o piade [...] per il più fatte di pasta non fermentata
con sale e cotte sotto le cenere infocate overo nelli testi infocati», e le
definisce «pessimo cibo con tutto che a molti tanto piaccia». Sui motivi di un
giudizio così drastico torneremo fra breve. Per orientarci meglio ricorriamo
intanto ad un'altra testimonianza.
Nell'inedita cronaca seicentesca compilata alla brava dal santarcangiolese
Giacomo Antonio Pedroni, canonico della cattedrale di Rimini, alla data del 12
marzo 1622, dopo alcune sconsolate annotazioni sulla carestia che allora
imperversava e sul micidiale rincaro dei prezzi dei generi alimentari, si legge
che «più persone facevano delle piadine di sarmenti et fave macinati insieme per
mangiarle in così gran bisogno».
A differenza delle piade del cardinale Anglic, quelle del Felici (forse) e
quelle del Pedroni (di certo), confezionate queste ultime con ingredienti
miserabili, saranno state morfologicamente affini alle attuali. Va ulteriormente
notato che il termine «piadina» non è un lezioso diminutivo di conio recente -
come anch'io ero portato a supporre -, ma è già attestato nella prima metà del
XVII secolo.
Il cronista ottocentesco Filippo Giangi usa invece il rafforzativo «piadone» (da
lui definito, sdegnosamente, «specie d'ordinarissima, cattiva focaccia»), là
dove ci informa che i popolani riminesi erano soliti consumarlo nelle
scampagnate di Ferragosto alle Grazie. L'impressione è che qui si alluda alla
spianata. E' curiosa, inoltre, una notizia del 1824, tramandata anch'essa dal
Giangi: una ragazza di diciott'anni, tale Adelaide Bazzini, sarebbe morta per
un'indigestione di uova sode e piadine: ma si trattava di laute piadine fritte.
Le povere «piadine»e
la fragrante piada di frumento
Vediamo di fare il punto. Il termine «piada» (che partorirà sia «piadone»
che «piadina») sembra designare genericamente, in origine, un ampio ventaglio di
schiacciate e focacce di cereali ed altro: lievitate o azzime, condite o
scondite, cotte nel forno, in padella, sul testo, sulla graticola o sotto la
cenere, di grano o di qualsiasi altra cosa
Sull'uso circoscritto e ausiliario (disperato, starei per dire) della piada fino
a tempi molto recenti, i dubbi sono bene pochi. Nei contratti e negli inventari
dei secoli XIV-XVI - quelli visti da me e quelli esaminati da amici che negli
archivi sono di casa - la piada non è mai menzionata. Sono talvolta ricordate
delle focatie e, più spesso, il pane. La presenza del forno anche nelle
case più umili, in città come in campagna, è una conferma della centralità del
pane, circondato, non per caso, da un'aura di sacralità da sempre negata alla
piada. Sacri erano i lieviti, conservati«in pani rotondi segnati d'una croce e
«considerati quali un geloso patrimonio familiare che non era consentito
prestare o commerciare»: i lieviti, che si rinnovavano per San Giovanni, il
«giorno prescelto ai sortilegi». La stessa penuria delle fonti
storico-documentarie che abbiamo volonterosamente esibito è un buon
argumentum ex silentio.
Il sospetto, in breve, è che la fragrante piada di farina di frumento cara al
poeta e a tutti noi sia una variante relativamente tarda e nobile della meschina
«piadina» di cereali vili e altri ingredienti anche peggiori (fave, fagioli,
castagne, ghiande, crusca e perfino segatura) che, nei «bei» tempi andati,
serviva almeno a calmare i morsi della fame. Se ne traevano delle piade per
l'ottima ragione che quella robaccia non si poteva mescolare al lievito e
panificare. Nel 1801 il medico Michele Rosa consiglia ai più derelitti di
confezionare piade (anzi, «piadine») con la farina di mais e la ghianda
macinata: «Chi non ha che formentone e ghianda, ammonisce «non ne faccia pane,
ma si contenti della piadina».
Si può ulteriormente supporre che le piadine abbiano avuto un massiccio rilancio
nel secolo scorso, a seguito della diffusione del mais. Si sa che i Romagnoli,
anche i più indigenti, non hanno mai avuto in simpatia la polenta, che il
padrone - nella Pratica agraria del Battarra - cerca, senza troppo
successo, di propagandare presso i suoi riluttanti contadini. Non potendo fare
il pane con la farina di frumentone, costoro si saranno adattati, soprattutto
nel Riminese, a cavarne delle tortillas. Ce ne dà conferma l'inchiesta
sanitaria del 1899 che, benché non si occupi espressamente del vitto, non può
non fare i conti con le malattie endemiche da sottoalimentazione e da
monoalimentazione, prima fra tutte la pellagra. La dieta del contadino è
costituita, a detta dell'ufficiale sanitario di Rimini, da «polenta sotto forma
di piadina o cotta nel caldaio con un po' di biade».«Schiacciate di farina di
mais mal cotte con teglie di ferro che le abbrustoliscono di fuori senza
cuocerle» conferma quello di Montescudo.
La memoria dei vecchi contadini va concorde, del resto, a tristi piade d'furmantòun
o, al più, armés-ci, cioè di farina di grano e di mais mescolate. Così il
contadino di San Lorenzo a Monte intervistato da Liliano Faenza: «Allora [negli
anni Trenta] il pane non si mangiava mai. Solo piada di polenta o pièda
armés-cia [...]. Durante il raccolto [...] si faceva il pane nel forno sotto il
portico, ma solo per cinque o sei giorni. E poi c'era più polenta e meno farina.
Ecco perché si faceva la piada».
«Può sembrare strano che Michele Placucci [...] non abbia mai fatto parola di
questo cibo caratteristico» si stupisce nel 1914 Nina Rimbocchi. Già. E perché
mai avrebbe dovuto lodare, o solo nominare, quello che per i più era un infimo
surrogato del pane?
Con la vaghezza storica e ontologica della piada colliderà la crescente forza
del suo mito. La piada, che nel 1913 è,con una certa dose d'ottimismo, la
«tradizionale e gustosa schiacciata dei Romagnoli», nel 1946 si transustanzierà
nell'«ostia d'oro che profuma come il corpo del Signore», e la Romagna si
autoproclamerà, infine, «quella terra che si tiene unita per mezzo di una tonda
e croccante focaccia»
La ricetta della piadina
Impastare g. 500 di farina con g. 200 di
strutto, sale quanto basta, un pizzico di bicarbonato di sodio e l'acqua
necessaria per ottenere un impasto solido. Dividere l'impasto in pezzi grandi
come un pugno. Con il matterello ricavare cerchi di 15 cm. di diametro e di 1/2
cm. di spessore.
La piadina si cuoce sul «testo» (piastra di ferro arroventata). Bisogna girarla
spesso e punzecchiare la superficie con le punte di una forchetta, per evitare
che si formino bolle d'aria. Si mangia ben calda, farcita di prosciutto,
formaggio, erbe cotte, insalata, eccetera.
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