romagna arte e storia

Rivista di cultura

  

Bruno Ballerin

CORSARI PIRATI E "LADRONI DI MARE"

Ras n. 43, a. XV, 1995

 

 

PER UNA CORRETTA DEFINIZIONE

LA PIRATERIA SULL'ADRIATICO

 

PER UNA CORRETTA DEFINIZIONE

Nella nutrita pubblicistica relativa alla pirateria non è infrequente notare una commistione fra le definizioni di pirata e corsaro, quasi si tratti di un distinguo linguistico da alternare per puri criteri d'eleganza stilistica.

In realtà la differenza sarebbe sostanziale secondo il Guglielmotti, che scrive nel suo vocabolario alla voce corsaro:
Capitano di bastimento privato che, in tempo di guerra, per patente lettera sovrana, scorre il mare a suo rischio contro navi, merci e persone del nemico. Termine del diritto internazionale, che distingue il Corsaro dal pirata, a dispetto di tutti quei sacciuti che han tentato di confondere i due concetti e le due voci, mettendo in un fascio la buona e la mala presa. Il fondamentale principio dell'errore nei lessici dipende dalla imperizia dei commentatori, i quali hanno per costume di spiegare agli altri ciò che non capiscono essi" .

Ben altro sarebbero invece i Pirati intesi come Ladroni di mare, secondo l'altra definizione che così recita: " Si dice (Pirata) del capitano, del bastimento e dell'equipaggio che scorrono il mare a rapina contro chicchessia, senza carte, senza patente, senza bandiera: nemici di tutti, sprezzatori d'ogni legge, dannati al capestro. Ben s'avveda di non confonderli coi Corsari" .

Si avverte un'insofferenza malcontenuta nelle parole del Guglielmotti, derivante con ogni buona ragione da polemiche a noi sconosciute e che debbono averlo non poco amareggiato; a mente fredda si deve tuttavia riconoscere che se "l'imperizia dei commentatori" ha favorito la mistione fra corsari e pirati, è pur vero come nei fatti il distinguo non sia stato semplice, considerando proprio il comportamento dei corsari che spesso univano l'agire utile al dilettevole.

La diatriba fra l'altro è antichissima. Si racconta che Alessandro Magno (figlio del gran corsaro che fu Filippo II) dopo aver catturato il pirata Dionide gli abbia domandato: "Con quale diritto tu corri i mari ?" Ricevendo la seguente risposta: "E con qual diritto tu rovini e depredi? Mi si tratta da pirata forse perchè non ho che una piccola barca, mentre tu, che comandi una grande flotta, passi per un conquistatore" .

A volte neppure la citata "Patente" di qualche sovrano era sufficiente a risolvere l'ambiguità, quando dall' interpretazione della stessa non dipendeva una disputa accademica ma la propria vita o i propri beni, come si può desumere dal seguente fatto di cronaca relativo agli Uscocchi - corsari per patente ma pirati per vocazione - avvenuto il 22 luglio 1617:

In giorno di sabato, fra le 21 e 22 hore, arrivarono al Porto di Rimini quattro barche d'Uscocchi con la loro capitania nella quale fur veduti 25 uomini dentro, et nelle altre tre 60 in ciascheduna, tutte benissimo fornite d'arme in hasta, scimitarre, et archibugi; ne scesero molti huomini in terra a mangiare sul lito et uno venne dentro a Rimini a mostrare certe loro Patenti a Monsignor Cittadino Milanese Governatore di detta città, il quale gli fece rispondere, per quanto si disse, che si ritirassero a largo in mare et non stessero in Porto perchè non haveva tal ordine dai Superiori; il qual ordine inteso da loro, subito partirono andando verso Pesaro, che era hora tarda, dove fecero poi molti danni in quella Riviera" .

Una difficoltà oggettiva, riscontrata anche dai magistrati dei nostri tempi nel dover giudicare il comportamento di taluni faccendieri - per intenderci - che taglieggiano con "patente del partito" per poi depositare la presa sul conto personale.

Concludendo il breve inciso sull'argomento si può affermare che sono esistiti Corsari nobili, come si ritiene sia stato Garibaldi nelle scorrerie in America latina, oppure il grande navigatore inglese Francis Drake (tanto stimato in patria da meritarsi il titolo di Sir), e Corsari briganti, o presunti tali, quali i fratelli Barbarossa, di cui parleremo in seguito; accettiamo comunque per valido che ogni popolo tende a considerare nobile il comportamento dei propri eroi e banditesco l'agire di quelli nemici: assunto forse giustificabile sul piano umano, meno in quello storico.

Tanto vale, a questo punto e per terminare la fase dei distinguo, qualche altra notazione relativa agli Uscocchi, di cui non avremo più modo di occuparci in seguito. Eredi nel mito degli antichi pirati illirici, ma in realtà profughi e fuggiaschi d'ogni risma , seppero trarre profitto, giocando su più tavoli, dalla complessa situazione politica e diplomatica che si era venuta a creare in Adriatico nel sec. XVI e XVII, soprattutto dopo Lepanto.

L'illustre Nicolò Dandolo li descrisse in una relazione alla fine del XVI secolo: "arroganti, superbi, ingordi e rapaci" e in genere non furono mai definiti dai Veneziani con maggior garbo di "ladroni e scelleratissimi". Il loro teatro operativo era nella frastagliata costa dalmata - dove si svolgeva il maggior traffico mercantile fra Venezia e il Levante -, nell'isola di Brazza e in particolare nella località di Segna, in Croazia, dove avevano un castello inespugnabile dal mare che è oggi una delle curiosità turistiche di quella splendida costiera.

Astuti, spietati, e ardimentosi come si conviene a dei predoni di mare, scrive di loro il Tenenti: "Si trattava di un pugno di uomini, in ogni caso non più di mille: ma erano riusciti a costituire una società di pubblica rapina così efficace che nulla valse a sradicarla" .

Seppero agire con la parvenza di corsari, compiendo azioni da veri pirati, grazie a nobili pretesti d'ordine religioso. Fidavano ora sulla protezione degli Asburgo, che desideravano compromettere i rapporti della Serenissima con quelli della Porta; ora sulla benevolenza del Papa che riusciva a vedere nelle loro rapine gesta da crociati in lotta contro gli Infedeli, anche se a volte a farne le spese era mercanzia pontificia caricata ad Ancona su naviglio turco; oppure su una vera patente di corsaro ottenuta dal Duca d'Ossuna, viceré a Napoli per conto della Spagna, e insofferente quanto la Casa d'Austria nei confronti dell'invadente flotta mercantile veneziana.

Attaccavano sortendo all'improvviso da qualche isola e non lasciando quasi mai scampo alla preda ; utilizzavano un armamento leggero e veloce che affidiamo ancora alla descrizione del Tenenti: "Le loro Brazzere (così dette dall'isola di Brazza) erano ottimamente studiate per la guerra di corsa in quella regione; molto piccole in genere avevano da 6 a 8 remi: le più grandi 12 o al massimo 16. Vi saliva sopra un numero triplo o quadruplo di uomini che si davano il cambio ogni ora imprimendo alla barca una velocità nettamente superiore a quella delle galere veneziane e dandole la possibilità di percorrere grandi distanze, perfino 100 miglia in una sola notte" .

La rapidità con cui si spostavano faceva sì che l'area da loro infestata fosse piuttosto vasta, in pratica i due terzi della Dalmazia, dall'Istria a Ragusa, ma erano sotto la loro minaccia anche le coste delle Marche, della Romagna e ovviamente del Veneto che raggiungevano in una giornata di voga per assalire al largo le incaute barche dei pescatori chioggiotti.

Venezia esasperata dallo stillicidio reagiva come una leonessa punta da un insetto, con colpi di coda violenti ma discontinui; utilizzava il miglior naviglio, dalle galere alle galeazze e ai galeoni , potentemente armati ma impacciati al cospetto dell'agile naviglio uscocco; nel 1586 decise di allestire una flotta più funzionale, in pratica con galee di minor dimensioni, che tuttavia se guadagnavano in velocità perdevano in potenza di fuoco, dovendo ridurre il numero dei cannoni.

Non è male soffermarsi un attimo sul comportamento o meglio sul "carattere" dei Veneziani; spietato al di là di quel che si desideri non avevano l'abitudine di fare prigionieri, come si può desumere dalla seguente spigolatura: "Le teste degli Uscocchi venivano tagliate alla lettera dai Veneziani che riuscivano a catturarli; spiccate dal busto ed esposte sulla pietra del bando, costituivano l'orgoglio dei comandanti" .

" Il giorno di Pasqua del 1587 Carlo Contarini, Capitano della guardia del Regno di Candia, era all'inseguimento di quattro fuste turche: ne prese una, la quale haveva il numero di 58 huomini che combatterono valorosamente et ferirono 50 huomini della galera: nè però ve ne morì se non uno che cascò in mare et si affogò. Et in fine restò la fusta presa et tagliati tutti li turchi a pezzi" .

"Il 17 ottobre del 1584 Gabriele Emo, Capitano delle sforzate, assalì un vascello barbaresco dinanzi a Cefalonia e, dopo un combattimento di almeno sei ore, se ne impossessò. Tutti gli occupanti - 50 Mori, 75 Turchi e 174 rinnegati - vennero fatti a pezzi, insieme con 45 donne del seguito".

"Nel luglio del 1596 Filippo Pasqualigo si scontra con Mehemet Remer, avvistato nelle acque di Saseno; il successo veneziano si può dire completo: sette galere rinforzate catturano quattro delle cinque galeotte e tagliano a pezzi tutti i pirati compreso il loro capo" .

Bisognerebbe averli conosciuti questi capitani di mare al servizio della Serenissima. A Perast, una cittadina a sud della Dalmazia e precisamente all'interno del golfo di Cattaro, c'è una casa del XVI sec. dove abitava una stirpe di comandanti di navi, e fuori i busti di alcuni di loro: sì, bisognerebbe vederli quei volti scolpiti nella pietra d'Istria, la rigidità dei loro lineamenti; si rimane con l'impressione che da vivi fossero intagliati in una materia ancor più dura.

Tornando agli Uscocchi, la loro vicenda si chiude all'inizio del Seicento - dopo la pace di Madrid - quando l'Austria non solo smette di proteggerli ma si impegna ad eliminare finalmente il problema, cosa che farà di lì a poco bruciando le loro barche e confinando i superstiti all'interno della Croazia.

L'attenuarsi dell'insidia uscocca non è avvertita dalle popolazioni rivierasche, terrorizzate dalle incursioni dei Turchi che in quegli anni imperversano nell'Adriatico, e che in fondo non hanno motivo di distinguere; infatti la tattica usata è sempre la medesima, quella classica dei predatori, basata sull'agguato, la sorpresa, la rapidità d'esecuzione e il terrore che paralizza le vittime impedendo una qualsiasi resistenza.

I pescatori erano prede naturali, cioè predisposte alla cattura: coi loro ossuti scafi, lenti, spesso impediti dalle reti in acqua, scorgevano le fuste dei pirati quando ormai era troppo tardi, troppo tardi per mettere in salvo il tesoro di bordo, cioè nient'altro che se stessi. Quattro, cinque persone d'equipaggio con un ragazzo, spesso padre e figlio assieme, finivano ad Algeri o Tunisi ai mercati degli schiavi: le cronache riportano sovente di barche trovate alla deriva, spoglie di uomini e cose.

Accadeva anche che qualche pescatore in vicinanza della costa si salvasse a nuoto, come capitò nelle acque del Conero il 17 giugno 1658: "Appena al levar del sole si son viste sette fuste de' turchi sotto le ripe del promontorio detto si S. Ciriaco, verso lo scoglio di Sanchimento chiamato, le quali scoperte da gli huomini di una barca pescareccia anconitana, detta tartana, si gettarono essi a nuoto in mare appoggiati a un'asta della barca, e si salvarono sotto le ripe, tra sassi in terra, havendo lasciata la detta tartana sul ferro in abbandono" . Oppure rifugiandosi nella foce di un fiume con la speranza d'essere soccorsi degli abitanti del luogo, come riferisce la gazzetta "Rimino", in data 17 maggio 1661, a proposito di un gruppo di tartane: inseguite da fuste dei Turchi si salvarono appunto nella bocca di un fiume distante cinque miglia dalla città, e grazie al tempestivo accorrere dei contadini; ma erano casi veramente rari.

Se la cattura avveniva di fronte ai luoghi dove i pescatori avevano ansiosi parenti ad attenderli sui moli, allora i pirati alzavano la bandiera del riscatto, un drappo bianco secondo le cronache, e restavano per alcuni giorni al largo in attesa; ma se l'intercettazione era avvenuta lontano dai rispettivi porti, com'era consuetudine dei remiganti chioggiotti, per i poveri marinai il viaggio in nord Africa era diretto.

 

Non mancavano in verità i casi un cui, carichi di troppo bottino, i Turchi avessero l'impudenza di spingersi fin sul lido per vendere le loro merci, come annota alla fine del Cinquecento Ludovico Agostini, un pesarese che ha assistito alla scena : "Ci fu di gran trastullo vedere molti nostri cittadini mercantare con que' ladri, che per denari gran cose davano per vilissimo prezzo, per poi scarichi potere attendere ai loro principali misfatti" .

E' stato scritto di Ordini religiosi, confraternite, di Padri coraggiosi che si dedicavano prima alla raccolta dei fondi e poi a perigliosi viaggi per riscattare miseri padri di famiglia non ancora incatenati ai remi. Non sempre tuttavia la questua era affidata ad organizzazioni religiose; a volte erano singoli parenti, spesso donne dolenti, non più madri nè mogli, ad affidarsi alla carità cristiana. Con apposite autorizzazioni, naturalmente, rilasciate dal vescovo della diocesi, forse con riluttanza:

"Concediamo licenza à detta NN del Paron NN da Rimini di potere per questa città, diocesi di Rimini, cercare elemosina per riscattare il suddetto povero Paron Michele (cancellato) suo marito con duoi, tutti chiamati NN, loro figli, d'età di anni ..., tutti duoi fatti schiavi in mano de Turchi. Commandando però a tutti li Regi dipendenti, Signori Rettori, Curati et altri sottoposti a Noi, che non impedischino detta questuante, anzi esorto tutti a volersi dar aiuto con raccomandazioni alli loro popoli, acciò li faccino bona e larga elemosina per poter riscattare li suddetti suoi poveri marito e figli, assicurando che sarà ben impiegata, e riceveranno da S.D.M. in Cielo la dovuta ricompensa" .

Le tariffe dei riscatti variavano secondo i tempi e secondo i luoghi; documenti d'archivio testimoniano che nell'ultimo quarto del secolo XVI, per uno schiavo fisicamente valido, si dovevano pagare circa 20 scudi d'oro ; agli inizi del Settecento, ad Algeri e Tripoli, la tariffa media era di 200 scudi d'argento .

Andò dunque meglio ai Padri del Monastero di San Vitale che nel vol. 1064 della contabilità, nell'anno 1573, registrarono: "Adj 11 di aprile ducati 40, numerati in duoi volte, a messer Baldessar di Lodi per altri tanti ha pagato per recuperare de man de Turchi Bernardino, garzone dele vache armentane, qual da promissa di servire al monastero e insin a tanto che habia saldato ditti 40 ducati di suo salario" . Come dire da una schiavitù all'altra.

La difesa attiva, o meglio l'offensiva, contro le fuste turchesche come abbiamo visto era affidata ai Veneziani che svolgevano una persistente attività di polizia nell'Adriatico centro-settentrionale, da loro considerato, non senza interesse, Il Golfo di Venezia. A volte solo con alcune galere, a volte con una intera flotta al comando del Capitano in Golfo; sappiamo che nel 1638 l'armata navale veneziana, che incrociava nel basso Adriatico al seguito di Marin Capello, contava ben 22 galere e due galeazze.

La resistenza delle popolazioni romagnole e marchigiane era invece di tipo passivo - salvo il caso che narreremo in seguito e pochi altri di cui è già stato scritto -, altrimenti come si potrebbe interpretare la triste statistica riportata da più fonti circa la presenza ad Algeri di oltre 20.000 schiavi alla fine del XVI secolo, anche se non è precisato quanti di loro provenissero dalle terre di Romagna . Le stesse suppliche rivolte al Pontefice per munire le coste con torri d'avvistamento, e la successiva costruzione dei sei torrioni in Romagna, avvenuta nel 1673 , sono ulteriori conferme di un atteggiamento passivo, se non proprio remissivo.

Non è che lo Stato Pontificio si disinteressasse al problema, anzi: nel 1477 il Papa Sisto IV istituisce un'apposita tassa per armare delle galere; partecipa con la propria flotta alle più importanti battaglie navali fino a quella di Lepanto, ma gli manca in Adriatico, dove ha la sua base operativa in Ancona, la costante presenza, la perseveranza e anche tempestività, che è solo dei Veneziani. Ed è senza dubbio con questa consapevolezza che il pontefice nel 1566 si rivolge direttamente alla Serenissima perchè intensifichi la vigilanza delle sue galere nel mare Adriatico .

 

Diverso il discorso se riferito alla cristianità in senso lato, che aveva allestito addirittura una propria attività corsara affidata alle galere ponentine (così erano definite dagli abitanti del Levante le navi corsare della Toscana e di Livorno in particolare) e ai più celebri Cavalieri di Malta e di Santo Stefano ; tuttavia essi raramente facevano la loro comparsa in Adriatico, avendo per compito e per missione religiosa quello di razziare i territori dell'Islam.

Tornando alle cronache locali e per sottolineare quanto cruenti fossero gli scontri navali, riportiamo quest'ulteriore drammatica vicenda accaduta al largo di Rimini:

"L'anno 1680 data la caccia da due Galeotte veneziane a quattro Fuste turchesche Dulcignotte , e quelle giunte, attaccarono una fiera e sanguinosa battaglia alla dirittura di Cattolica, da molti con Canocchiale nei siti alti ben veduta. Sortì a Veneziani in primo sangue di affondare una Fusta nemica, e anche di fare quasi affatto un'altra, onde vedendo i Turchi il caso disperato, afferratisi i Legni assieme con oncini di ferro, gettarono tante bombe nelle Galeotte che in breve tempo restarono abbruciati e disfatti i Veneti, restandone di 120 e più persone solo cinque vivi salvatisi in acqua, sotto la quale come loro dissero erano stati tra sotto e sopra da cinque ore. Partiti poscia i Turchi questi montarono sopra una delle Galeotte, ma come che erano restati privi di vele tutte abbruciate, di corde tutte tagliate, di remi tutti spezzati, legata una Galeotta all'altra scorsero il mare alla sorte, e verso le 20 ore in circa entrarono meglio che poterono in questo Porto di Rimini: il popolo fu in gran numero che concorse a vederle, ma pochi furono che si fermassero a considerare lo spettacolo, al quale appena fissati gli occhi rendeva sì grande orrore, che conveniva partirsi, vedere tanta quantità di uomini deformati che parevano zocchi abbruciati, non distinguendosi a molti nè la testa, nè le altre membra; sopra la coperta della Galeotte vi si vedevano in molti luoghi laghetti di sangue..." .

 

I Veneziani dunque pagavano di persona per mantenere il controllo del Golfo e quando capitava si facevano pagare il disturbo, com'è giusto; se prima abbiamo descritto la durezza del loro carattere, ora soffermiamoci sulla loro avidità, cioè l'altra faccia di una moneta che ha consentito l'accumulo del capitale necessario ad erigere i numerosi palazzi della loro splendida città.

Siamo consapevoli che per rendere ragione dell'affermazione fatta occorrerebbe un trattato, ma ci sia ugualmente consentito di riportare solo alcune notizie, la prima delle quali è datata 1572: "Nel seguente anno 72 successe un caso che per la curiosità solamente si registrerà ed è che ali sei di maggio una fusta turchesca sopra il Porto [di Rimini] fece preda di cinque barche, e subito cacciò fuori bandiera di riscatto. [...] La fusta prese poi la fuga, havendo discoperto quattro barche armate dei Veneziani che alla gagliarda rancavano verso lei, tirando al largo due barche, le altre tre lasciate furono da i nostri marinai condotte in porto. I Veneziani gli diedero un pezzo la caccia e poi tornarono facendosi portatori delle due barche lasciate dai turchi, che per riaverle, con la mercanzia chel v'era sopra, convenne poi a patroni contar a detti Veneziani centotrenta ducati".

Il secondo documento è estraneo al tema e anche più insignificante come vicenda, ma a volte, come si dice, è dal particolare che si nota lo stile; se non altro aiuterà a capire come nulla sfuggisse alla Repubblica, tanto da meritarsi, fra l'altro, l'appellativo di "occhiuta"; si tratta di una notizia desunta dai Regesti Malagola e riferita ad una lettera spedita da Venezia in data 28 ottobre 1508: "Lettera dei Capi ai Rettori di Ravenna perchè spediscano tosto alla Camera del Consiglio dei Dieci i denari ricavati dalla vendita di parte dei ramali della pineta gettati a terra dal vento, e procurino di vendere vantaggiosamente quelli che ancora rimangono, spedendo poscia i denari come sopra".

Risparmiamo infine la definizione integrale data dall' ambasciatore francese Hèlian, davanti alla Dieta germanica, il quale considerava i Veneziani corsari infami che infestano ovunque i mari, più pericolosi dei mostri marini, degli scogli e delle tempeste .

Qualche riconoscimento morale deve pur andare anche ai Veneziani: erano ad esempio gli unici ad utilizzare rematori liberi anzichè schiavi , questo almeno fino al Cinquecento, dopodichè le ciurme furono composte di carcerati per delitti comuni a cui era commutata la pena; una forma comunque di volontariato che doveva risultare più affidabile nei difficili frangenti. I Turchi invece preferivano utilizzare nelle loro galeotte la forza motrice degli schiavi, quindi risparmiavano la vita ai Cristiani che cadevano nelle loro mani, a meno che non si rivelassero in seguito di scarsa potenza , come si desume dal seguente fatto di cronaca avvenuto al largo di Ancona: " Successe l'anno 1562 alli 10 di giugno [...] non volendo tacere una crudeltà del Comandante della prima fusta, che vedendo uno schiavo Cristiano pigro nel remigare, gli tagliò con la scimitarra un braccio, e con quello percotteva poi gli altri che parevano a lui negligenti nel vogare" .

 

LA PIRATERIA SULL'ADRIATICO

Dopo queste crude dissertazioni torniamo al tema con una osservazione di carattere generale: rileggendo le cronache del tempo e gli scritti sulla pirateria degli ultimi decenni se ne può trarre l'errata convinzione che la presenza dei Turchi in Adriatico sia legata a bande di briganti isolate o male organizzate, a predoni dagli oleografici costumi ; il che corrisponde ai fatti così come sono stati visti dalle popolazioni che li hanno subiti, e si avverte di fatto in queste narrazioni l'ottica angusta degli ex voto. Le vicende invece possono avere altro respiro, essere inquadrate nell'ambito di una grande guerra condotta per secoli da imperi non conciliabili negli interessi, ma soprattutto nella visione del mondo, con scontri titanici iniziati dopo la cacciata dei "mori" dalla Spagna.

Ci sono quadri del Seicento che descrivono le grandi battaglie di mare, ma guardando questi dipinti si ha l'impressione che essi soffrano in modo particolare la cornice che li racchiude; solo uno sforzo della fantasia può rendere la scenografia di un teatro di guerra navale in cui centinaia di vascelli si fronteggiano; occorre essere stati almeno una volta in un cantiere, avere osservato la costruzione di un bastimento e la quantità preziosa di legno che ha in sè ancora l'odore del bosco, e l'intelligenza, e il lavoro impiegato, per concepire gli immensi capitali distrutti in quegli scontri.

Non è con questo scritto che possiamo ovviare alla lacuna, ma ci sia consentito in brevità di riportare alcuni avvenimenti di più ampio respiro, che speriamo contribuiscano a meglio definire chi erano i famigerati "Turchi" del disperato grido popolare; se loro, i Barbareschi o i Dulcinotti appartenevano allo stesso fenomeno, se si trattava di briganti crudeli, occasionalmente imbarcati su navi, oppure di navigatori esperti, e infine, per l'appunto, se agivano di loro sponte o per patente di qualche Governo.

Dopo il forzato abbandono della Spagna agli albori del Cinquecento gli Arabi si attestarono nel nord Africa, nella lunga costa Barbaresca che va dalle colonne d'Ercole ai confini dell'Egitto e che mutua il nome da alcune tribù presenti in zona: i Berberi; essi stessi in seguito furono definiti "pirati barbareschi" e diventarono con quell' appellativo il terrore della cristianità in tutto il Mediterraneo.

Scrive di loro lo storico Philip Gosse: "Al momento dell'espulsione il mare era per i musulmani un elemento poco familiare e la navigazione un' arte ancora da apprendere. Molti di loro provavano un terrore superstizioso alla vista dell'acqua profonda, esattamente come la maggior parte degli antichi Greci" .

Dovettero tuttavia apprenderla in fretta l'arte di navigare perchè le vie del mare erano l'unico modo per raggiungere due obiettivi: quello primario della sopravvivenza, dato che si trovavano su di una terra dalle scarse risorse economiche, e quello di vendicarsi degli spagnoli che li avevano spogliati dei beni ed estromessi da un territorio che occupavano ormai da sette secoli.

Essi impararono quanto vi era da imparare del carattere marinaresco e vi aggiunsero anche qualcosa di terrestre, come l'audacia dei lupi e l'astuzia delle volpi; ma qualcosa anche delle capacità operative di un popolo fiero e civile che già aveva fatto conoscere l'algebra e l'alchimia agli europei. Scrive ancora il Gosse: "L'intero carattere della pirateria nel Mediterraneo mutò in breve dopo l'espulsione. I nuovi corsari costruivano navi più grandi e più rapide, aggiungendo la vela al remo. Essi perfezionarono l'organizzazione a bordo delle navi aumentando il numero dei prigionieri da impiegare sulle galere e riservando i combattenti allenati per le squadre d'abbordaggio. Consapevoli del fatto che la pirateria è un ramo del commercio oltre che della navigazione, essi apprestarono un intelligente sistema per assicurarsi una protezione e uno sbocco per le loro merci, tramite il pagamento di una percentuale (in genere il 10% del bottino) ai capi indigeni della costa" .

In questo senso i due fratelli Barbarossa - nel mito predoni feroci - debbono essere considerati dei Manager, almeno nel senso che può esserlo un corsaro, sempre secondo quanto afferma lo storico: "Il capo pirata doveva saper condurre la sua nave in mezzo alle tempeste e durante gli scontri, doveva guidarla, nonostante le avarie, fino al porto di salvezza; doveva tenere a freno gli equipaggi indisciplinati, malgrado le malattie e i malcontenti, e infine, una volta a terra, doveva impiegare le arti della diplomazia per trovare un mercato dove vendere il bottino. Gli uomini di una tale tempra sono rari, e ben poche professioni rispettabili possono vantare personalità più spiccate di quelle che incontriamo in cima all'albero dei pirati".

E come i manager nella migliore tradizione i Barbarossa avevano iniziato la carriera dalla gavetta, che qui vuol dire ai remi di una galera,e poi in proprio con una piccola attività di pirateria. Corsari Barbareschi, e "Turchi" nell'accezione comune - in realtà figli di un vasaio greco - entrarono a far parte dell'Impero musulmano per adesione interessata ma spontanea.

Arouij era il maggiore dei due, anche se non il migliore. Coi capelli e la barba di un rosso acceso, di religione cristiana, diventò musulmano ancora adolescente dopo il trasferimento del padre nell'isola di Mitilene agli inizi del Cinquecento; si arruolò volontario a bordo di una nave pirata turca finendo in poco tempo, grazie alle innate qualità, per ottenere un comando nell'Egeo . L' eccezionale intuito lo portò ad affrancarsi dalla Porta per svolgere libera professione nel Mediterraneo occidentale; in seguito ad un accordo col Bey di Tunisi, a cui cedeva una percentuale del bottino, si assicurò il necessario luogo d'appoggio per il sostentamento della ciurma e il rimessaggio delle navi.

Le sue imprese furono un crescendo di successi fino alla spettacolare conquista delle galere papali; perse un braccio spezzato dal proiettile di un archibugio, ma la mano che gli restò fu sufficiente a strozzare un certo Salim e ad impossessarsi di Algeri e di un vasto territorio circostante. Le sue imprese paralizzarono i traffici nel Mediterraneo, ma la troppa audacia gli fu fatale: morì nel 1518, in uno scontro campale e cioè fuori dal proprio elemento, preferendo alla fuga la morte, nonostante avesse con sè solo millecinquecento uomini contro i diecimila mandati da Carlo V.

Il fratello minore Kheyr-ed-din prese il suo posto riuscendo a far in modo che Arouij non fosse rimpianto: più alto e imponente di lui, più cespuglioso nella rossa barba e nei capelli, di lui aveva il genio e l'audacia ma in più la prudenza dell' uomo di Stato, che certo non guasta visto che lo portò alle cariche più elevate dell'Islam e alla veneranda età di novant'anni, alquanto insolita per un corsaro.

Quando ereditò dal fratello i vasti territori del nord Africa pensò saggiamente di farne omaggio al Gran Signore di Costantinopoli, il quale, per ricompensarlo, lo nominò Governatore generale di Algeri con ampia libertà d'azione nel Mediterraneo. Con Kheyr-ed-din, che divenne il Barbarossa per antonomasia, non solo s'intensificò l'attività corsara, ma disponendo egli di più flotte - una delle quali efficientissima che aveva fatto costruire su personali progetti - si aprì l'era dei grandi scontri navali culminati con la Battaglia di Lepanto.

Delle sue battaglie e spedizioni ne riporteremo solo una, neppure la più importante, ma l'unica crediamo che egli condusse sul finire della stagione di caccia del 1537 nell'Adriatico, un mare che per i Barbareschi rimaneva fuori mano: "Kheyr-ed-din terminò la stagione con una spedizione nell'Adriatico settentrionale, uccidendo e bruciando al suo passaggio e rientrando con migliaia di prigionieri tra i quali figuravano alcuni membri delle più nobili famiglie di Venezia. L'inventario del bottino comprendeva quattrocentomila pezzi d'oro, un migliaio di fanciulle e millecinquecento giovani. Come omaggio al suo Signore Imperiale, gli inviò duecento giovani con vestiti scarlatti, ciascuno dei quali portava una coppa d'oro e d'argento, altri duecento recavano pezze di fine drappo e trenta dovevano offrire al sultano altrettante borse ben fornite" .

I successi spettacolari valsero al Barbarossa la nomina ad ammiraglio di tutte le flotte dell'Islam, rendendo ancor più grottesca l'ostinazione della cristianità che continuava a considerarlo un pirata da capestro e nulla più. Sbagliavano evidentemente, e lo conferma pure il fatto che al capestro non ci finì mai; concluse invece la lunga esistenza a Istambul godendosi i risparmi di una vita di lavoro, in compagnia di una splendida fanciulla che pare avesse, secondo i biografi, una settantina d'anni meno di lui.

Suo grande rivale per esperienza, tenacia e coraggio fu Andrea Doria. Gli storici in genere e quelli italiani in particolare hanno sempre privilegiato la storia che avanza sulle orme delle legioni più che nella scia dei velieri, così spettacolari vicende e grandi personaggi sono rimasti nell'ombra. Uno di questi è appunto Andrea Doria, e il fatto che vi sia in fondo agli abissi dell'oceano la grande nave che porta il suo nome è forse per lui il miglior monumento. Passò più di mezzo secolo sulla coperta dei bastimenti e fu il più irriducibile avversario dei Barbareschi diventando il primo fra gli ammiragli spagnoli, benché di origine genovese; assunse più volte il comando delle spedizioni punitive contro l'imponente flotta musulmana: ora nelle acque di Tunisi ora in quelle di Algeri, dove si trovò al comando di 600 vascelli, più di quanti avrebbero fatto parte dell'invincibile armada che nel 1588 fu spedita contro l'Inghilterra.

Alla sua grandezza di marinaio mancava tuttavia qualcosa; non certo l'ardimento, forse quel tanto di genio e sregolatezza connaturato ai suoi antagonisti turchi; valga comunque ad esempio l'aneddoto che segue.

Nel giugno del 1550 l'ormai anziano ammiraglio si trovava al comando di una spedizione destinata ad espugnare la città marittima di Mahdiya in Tunisia; il comandante della flotta turca era un altro grande ammiraglio dell'Islam, Dragut impegnato in quel periodo a razziare nel Golfo di Genova; al ritorno trovò la città già caduta in mano agli spagnoli e così si diresse all'isola di Jerba dove c'era un lago interno molto adatto al carenaggio delle navi. Andrea Doria lo raggiunse e si pose alla fonda davanti allo stretto canale che conduceva al lago, restando ad aspettare che la preda uscisse dalla tana.

L'attesa di Doria fu più lunga del previsto, fra l'altro doveva raggiungerlo una galera in appoggio proveniente da Genova; arrivò invece una veloce galeotta per avvertirlo che i rifornimenti erano stati intercettati dai corsari, comandati nientemeno che da Dragut; l'incredulo ammiraglio aspettò ancora qualche giorno, poi s'avventurò nello stretto canale. Trovò in effetti il lago deserto: l'astuto corsaro turco aveva costretto i contadini e i suoi stessi marinai a scavare una lunga fossa che gli aveva consentito di uscire con le fuste dall'altra parte dell'isola.

Dragut morì circa quindici anni dopo durante il secondo assedio di Malta, nel periodo in cui l'Impero ottomano aveva deciso di estirpare il covo di quegli strenui avversari - un po' corsari e un po' crociati - che erano i Cavalieri di Malta. Fu un terribile e lungo assedio in cui emerse un'altra straordinaria personalità dell'epopea marinara: Giovanni de La Valletta, Gran Maestro dell'Ordine e ormai settantenne. In gioventù era stato prigioniero dei Turchi, per un anno ai remi della galera di Barbarossa aveva avuto modo di conoscere Dragut, il suo miglior luogotenente; il mutare degli eventi fece sì che tempo dopo fosse Dragut a cadere prigioniero e a finire incatenato ai remi della nave di Andrea Doria; remava già da quattro anni quando casualmente fu notato da La Valletta nella baia di Tolone. Questo accadeva vent'anni prima dell'assedio di Malta e il Gran Signore dei Cavalieri, che pur avendo spiccate qualità non sapeva leggere nel futuro, si comportò com'era nel suo stile e contribuì a farlo riscattare negoziando fra Doria e Kheyr-ed-din.

La resistenza a Malta da parte dei Cavalieri fu di un incredibile eroismo, sorretti dalla straordinaria forza morale del loro Grande maestro a cui è legato il nome della capitale dell'isola; egli, allo stremo delle forze dopo sei mesi d'assedio, senza l'annunciato arrivo della flotta spagnola avrebbe rischiato di sperimentare quale fosse il sentimento della riconoscenza in un corsaro turco .

Ma è giunta l'ora di interrompere la scorreria nella "grande storia" per passare all'illustrazione dell'ultimo documento tratto dalle fonti locali; siamo certi che svolgendosi l'accaduto nello stesso periodo e in quella temperie, non risulterà sminuito dal riverbero dei più famosi avvenimenti.

Si tratta della trascrizione fatta dal notaio Giuliano Silo di Rimini, in data 21 settembre 1580, di una lettera del cardinale Presidente di Romagna il quale autorizzava la concessione di un premio, ad un gruppo di abitanti del Porto di Cesenatico, che con coraggio avevano recuperato un bastimento da carico caduto nelle mani dei pirati.

" Ill.mo e Rev.mo Signore Giovanni Pietro Ghisleri Presidente
della provincia di Romagna
per la facoltà del suo ufficio e per l'autorità a lui attribuita dal Pontefice Gregorio XIII, vuole siano degnamente ricompensati gli uomini del luogo e porto di Cesenatico i quali audacemente e valorosamente combattendo nei giorni passati hanno strappato dalle mani dei pirati un naviglio con tutti i beni in esso esistenti, cioè beni del valore di circa quattromila ducati, come appare dalla descrizione fatta dal Signor Giacomo Sandri Pretore del Porto di Cesenatico, sotto la data del 31 agosto anno corrente.
Stabilisce che siano venduti, tra i tanti beni esistenti in detta imbarcazione, sia l'olio sia il ferro per il prezzo da stabilirsi dal Signor Ludovico Beltrame e dal Signor Francesco Delgrande abitanti di detto Porto, con patto tuttavia e condizione che tutto ciò che risulterà superiore alla somma più sotto da dichiararsi e da elargirsi come sopra, debba essere consegnato a coloro che veramente e realmente avranno mostrato di essere i veri e legittimi signori e padroni della predetta nave e dei beni, riservato tuttavia sempre il diritto della Reverenda Camera Apostolica e che i pretendenti paghino realmente [...] la somma di 55 scudi d'oro, la qual somma, l'Ill.mo Presidente, in vigore della facoltà che ha, dichiara che sia data consegnata ed elargita ai predetti uomini, in fine e in calce della presente da descriversi e nominarsi, in ragione di 10 scudi d'oro per ciascuno di essi quale premio per lo sforzo profuso e il rischio incorso, e ad effetto che in contingente occasione - che Dio ci liberi - gli stessi uomini ancor più audacemente e con maggior coraggio contro i pirati, i turchi, i ladroni e altri simili uomini scellerati, lottino e combattano e con mano forte uccidano o scaccino per la sicurezza e la quiete e la pacifica vita degli abitanti di detto luogo, e di quella parte dello Stato Ecclesiastico"
.

Riteniamo il documento importante non solo per l'avvenimento in sè, che come si è detto testimonia una delle poche reazioni violente delle popolazioni locali, ma anche perchè sottolinea l'interesse delle autorità pontificie verso un fenomeno che stava rendendo impossibile la navigazione e i commerci, solo in questo senso si può interpretare l'alto valore del premio concesso ai pur valorosi marinai del Cesenatico. Ma un allegato dell'atto notarile, che ci limiteremo a riassumere, rende anche evidente la pochezza dei capitali impiegati nella lotta; come si legge infatti il Presidente di Romagna "vuole e stabilisce" che per provvedere alla difesa della torre di Porto Cesenatico sia consegnato, da ognuno degli aventi diritto al premio, scudi uno nelle mani del sovrintendente Francesco Masini; "vuole e stabilisce", inoltre, che entro quindici giorni da quando avranno ricevuto il danaro comperino un archibugio e quanto necessario allo stesso: fiaschi, polvere, palle e altre simili cose; nel medesimo tempo "vuole e stabilisce" che i padroni delle barche siano tenuti ad acquistare una macchina da guerra, comunemente detta "archibusone", del valore di tre, quattro e forse più scudi per ciascuno.

Appare evidente un gran dispendio di volontà, meno di mezzi. Pur precisando che l' archibusone doveva essere una sorta di spingarda, si comprende perchè i Turchi riuscissero a predare uomini e cose con tanta facilità, almeno nelle località periferiche; abbiamo notizia che nel 1587 il Porto Cesenatico era composto da 130 famiglie con 1320 persone circa , e quello sopra descritto risulta un ben misero arsenale, certamente inferiore alla quantità di coraggio mostrato dagli abitanti stessi nell'occasione riferita.

Ma tant'è. E così, come non erano riuscite le grandi battaglie di mare, non potevano valere le sporadiche reazioni delle comunità costiere a fermare le incursioni piratesche che si protrassero fino al primo quarto del sec. XIX; nel 1815 si ha ancora una razzia col pesante bottino di alcune centinaia di uomini, fra cui molti pescatori veneti e marchigiani . Appena sei anni dopo una nave mercantile ottomana naufraga fra Bellaria e Cesenatico; in seguito sarà condotta per le riparazioni in un cantiere di Rimini, dove, a detta del cronista, i Turchi dell'equipaggio e alcuni mercanti sono accolti con benevolenza ; è un sintomo di normalizzazione, anche se ufficialmente si dovrà attendere la conquista di Algeri da parte dei francesi, avvenuta nel 1830, per considerare concluso il drammatico fenomeno della guerriglia di corsa che per secoli costituì, con le carestie e le pestilenze, il flagello delle popolazioni nelle coste di Romagna.

 

index

 

index

 

index

 

index